Monte Rosa

La vista dalla vetta

Ebbene sì, sono tornato, vivo.
I 4556 metri di Punta Gnifetti sono stati conquistati, e devo dire che sono soddisfazioni. Personalmente non avevo tutta questa smania di conquistare qualcosa, e mi sarei accontentato di una bella settimana lontano dalla civiltà, tra boschi e montagne, con tenda, fornelli e cibo in spalla: un modo di stare in montagna che mi è stato insegnato dai quelli che sono stati i miei compagni anche di questo viaggio, e che è assolutamente impagabile per come mi permette di staccare e di dimenticarmi di impegni e problemi, e riequilibrare il cervello – per quel poco che è possibile.
Ma sempre gli stessi soci hanno una certa passione per i ghiacciai e per le performance in generale, per cui alla fine mi sono lasciato trascinare nell'impresa, totalmente a digiuno di ramponi, cordate, picozze e quant'altro. Devo dire che ne è valsa la pena.

Panorama dal Gnifetti

Il viaggio è stato impostato con calma, nel senso che ci siamo presi 6 giorni in totale, partendo dai 1685 metri di Gressoney La Trinitè per arrivare sulla vetta e ritorno. Finché siamo stati sotto i 3000 metri c'è stata la possibilità di accamparsi nelle nostre tende e cucinarci il cibo sui fornelli, insomma viverla come piace a noi. Poi, dopo gli accampamenti sul Lago Gabiet e sul Lago Blu, si è incominciato a fare sul serio: siamo saliti ai 3647 del Rifugio Gnifetti, con il primo lembo di ghiacciaio affrontato nella mia vita con tanto di ramponi e picozza, e come ciliegina sulla torta la malefica scaletta per issarsi fino al rifugio, che ha rischiato di diventare il mio personale ponte tibetano (cit. Come è dura l'avventura) ma che per fortuna ho passato indenne sia in salita che in discesa.
A proposito di Tibet, il rifugio stesso è quanto di più tibetano mi sia mai capitato di vedere da queste parti: abbarbicato su un roccione circondato dal ghiacciaio sembra una sorta di Potala più spartano; ma è stata soprattutto l'assenza di acqua nei bagni a riportarmi le sensazioni (olfattive) e il comfort delle latrine tibetane. Certo fare pipì nella turca guardando in faccia sua maestà il seracco è qualcosa di unico.
E poi da lì la vetta: 900 metri (con saliscendi ad aumentare il dislivello reale) tutti su ghiaccio, con partenza alle 5 di mattina al buio e con la lampada frontale in testa. Il silenzio e la tensione del momento della vestizione, il ghiacciaio di notte, le luci lontane delle cordate che ci precedevano sono qualcosa che mi porterò dentro per sempre. Come del resto l'alba sul ghiacciaio, la vista sul mare di nuvole sotto di noi da cui spuntavano solo le vette più alte, e l'arrivo in vetta alla Capanna Margherita, l'ecomostro più alto d'Europa.
Sensazioni davvero difficili da descrivere, posso solo dire che il ghiacciaio in sé è davvero qualcosa che incute timore e rispetto, come una cosa viva e potente, una divinità della natura. E questo non solo quando ci sei in mezzo (anche perché siamo stati nelle parti ovviamente facili e sicure) ma soprattutto quando da posizioni privilegiate - come il rifugio, o molte parti del sentiero - si vedono i crepacci, i seracchi, le spaccature del ghiaccio vivo. E' lì che è evidente la forza dirompente di questa enorme massa semovente, che pur in fase di ritirata riesce a dimostrare una enorme potenza, ed è palesemente in attesa della prossima glaciazione per mostrare ancora una volta i muscoli e cambiare la nostra geografia.

Rifugio Mantova e dintorni

Ma più delle parole spero parlino le immagini, che potete trovare qui. (oppure qui per la versione riassunta - chiaramente consiglio quella completa)
Nel frattempo si torna al lavoro ma non alla vita di tutti i giorni, visto che sono a Lyon per questa settimana nella nuova sistemazione di Sara che diventerà presto anche la mia (la città, non il mini-appartamento in residenza). Per ora il nomadismo estremo continua.

2 commenti:

sdn ha detto...

Bello il racconto e belle le foto. E ora hai piantato la bandiera orobica anche sul Rosa... :D

BA'AL ha detto...

Sei sempre una penna stilosa!